Interventi

Una “Scuola” di cultura politica

Fra pochi giorni, a metà ottobre, per il quinto anno consecutivo, la Casa della Cultura di Milano avvia la sua “scuola” di cultura politica. Un’operazione impegnativa in tempi in cui la politica sembra ridotta a esibizione di leader e a spettacolo mediatico, in cui la militanza politica e le stesse strutture politiche vengono “rottamate”, in cui il messaggio politico è drasticamente semplificato.
Il programma della “scuola” non prevede la presenza di leader politici ed è anche svincolato dalla cronaca e dalla piccola polemica quotidiana. E’ un invito a ragionare in profondità su quanto sta accadendo, a recuperare il senso e il gusto dei pensieri lunghi. Insomma, questa “scuola” di cultura politica oggi vuole essere ed è una vera e propria sfida culturale.

Cambiamenti tumultuosi e disagio cognitivo 

L’obiettivo è fornire nuovi strumenti di comprensione e di orientamento a chi si impegna pubblicamente. La situazione economica e sociale, la vita politica e culturale si stanno modificando con sorprendente rapidità, ma spesso gli stessi protagonisti della vita pubblica sembrano procedere a tentoni e brancolare nel vuoto.
Vi sono evidenti difficoltà a capire cosa sta avvenendo nello scenario mondiale. Le crisi si susseguono e si accavallano: in pochi mesi si può passare dall’euforia per le primavere arabe all’incubo per l’irruzione di nuovi fondamentalismi. Il Papa stesso ha dato voce a questo sconcerto parlando di “guerra mondiale a pezzi”.
Dinanzi alla crisi economica, che si trascina ormai da sei lunghi anni, le scelte dei leader politici e dei decisori economici appaiono singolarmente ripetitive e inefficaci. Di fatto assistiamo impotenti alla corrosione del tessuto economico, alla riduzione dei redditi, all’indebolimento della coesione sociale. 
Anche il quadro politico europeo, che si sta rapidamente trasformando e deteriorando sotto l’urto di nuovi populismi, presenta nuove preoccupanti incognite.
Ognuno di questi fatti eclatanti gode di un’ampia copertura mediatica. Giornali e televisioni sfornano servizi a ripetizione mentre la rete li rilancia integrandoli con una poderosa autoproduzione di massa. Insomma, le informazioni abbondano, ma ciò che manca, che i cittadini non riescono a rintracciare e a metabolizzare, è la riflessione e la valutazione approfondita. Le analisi accurate, a tutto campo, scarseggiano e, comunque, si perdono nel rumore mediatico e non si sedimentano.
Si può parlare di un vero e proprio disagio cognitivo che coinvolge i cittadini e gli stessi attori della vita pubblica. In un ambiente sovraccarico di informazioni diventa sempre più urgente trovare le modalità per interpretare le notizie e gli avvenimenti, ovvero per riuscire ad orientarsi.
Ecco le ragioni di questa “scuola” di cultura politica: fermarsi un attimo, staccarsi dal flusso degli avvenimenti, mettere il silenziatore sul rumore mediatico per provare invece ad attivare lo sguardo a tutto tondo, per recuperare il gusto dello scavo approfondito, per vagliare e discutere attentamente le varie ipotesi interpretative.
La stessa parola “scuola” evoca un percorso strutturato, con una metodologia precisa di insegnamento e di ricerca, per spingere all’approfondimento e al confronto fra diversi punti di vista.
Altrettanto impegnativo è il sintagma “cultura politica”. Esso evoca un impegno pubblico fondato su scelte e valori consapevoli, su progetti di medio e lungo periodo, su pensieri lunghi. Si tratta di ricercare le cause anche remote degli avvenimenti, di evidenziare che è sempre possibile compiere scelte diverse, di progettare il futuro sulla base di precise opzioni ideali. Questa “scuola” di cultura politica è stata pensata per invitare a sviluppare il gusto per la ricerca e per stimolare lo spirito critico. Nell’insieme, un’operazione culturale unica nel panorama politico e culturale italiano, consapevolmente controcorrente.

La democrazia oggi. Minacce e opportunità

Quest’anno il programma della “scuola” verte sulla grande questione della democrazia, delle minacce che incombono su di essa e delle opportunità che si intravedono. Sono stati individuati quattro grandi campi di riflessione, ad ognuno dei quali è dedicato un modulo formativo.
Si comincia con l’ondata populista che sta sfigurando la democrazia europea. In quasi tutti i paesi europei sono emersi nuovi soggetti politici, dal Front National in Francia all’Ukip in Gran Bretagna. Etno - nazionalismi e regionalismi stanno mettendo a dura prova molte compagini nazionali europee. In alcuni paesi si sono incistati movimenti xenofobi e razzisti. Insomma, la prima grande questione su cui invitiamo a riflettere è la crisi che sta squassando i sistemi politici europei.
Con il secondo modulo si affronta il nuovo disordine dello scenario mondiale. La stagione dell’unipolarismo, della prevalenza unilaterale degli Stati Uniti, è stata breve. Nel mondo si vanno delineando più aree di influenza mentre si stanno indebolendo gli strumenti di regolazione delle crisi internazionali. La crescente globalizzazione e interdipendenza economica non è accompagnata da una nuova convergenza politica mondiale. Probabilmente sta qui una delle ragioni delle tensioni crescenti che attraversano il mondo.
Il terzo modulo affronta di petto la grande questione della crescita delle disuguaglianze. Dopo trent’anni di egemonia liberista le disuguaglianze sociali sono letteralmente esplose: si sono allargate le fratture sociali e si sono formate nuove strutture oligarchiche di potere. La questione sta cominciando finalmente ad emergere nel dibattito pubblico: la “scuola” si propone di stimolare una riflessione che vada alle radici di questo inquietante fenomeno dei nostri tempi.
Infine ci si interroga sulla grande questione dell’innovazione. Molti, tanti, invocano l’innovazione come panacea a tutti i nostri mali. La “scuola” cerca di scavare dentro questo assioma. Si tratta di capire cosa si intende per innovazione, di conoscere i nuovi sviluppi della scienza e della tecnologia, di riflettere sugli impatti sociali e culturali dell’innovazione. La “scuola” avvia le sue attività il 17 ottobre.
I quattro moduli si snoderanno da ottobre 2014 a maggio 2015: otto lezioni per modulo, trentadue lezioni complessive, con docenti che provengono da tutta Italia e dal mondo. A ogni lezione segue una discussione pubblica mentre ulteriori approfondimenti sono previsti nei gruppi di lavoro. Insomma, un percorso intenso di studio, di riflessione, di discussione. Di cui vi è davvero tanto bisogno.

Milano, 15 ottobre 2014

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Enrico Berlinguer. A trent’anni dalla scomparsa

Enrico Berlinguer ha lasciato un’eredità non semplice. Egli ha guidato per quindici anni un partito politico destinato, cinque anni dopo la sua morte, a decidere il proprio scioglimento. Il suo nome, inoltre, è legato a una strategia politica, il compromesso storico, assai contrastata e che non ha raggiunto i suoi obiettivi. Eppure, a trent’anni dalla scomparsa, Berlinguer viene ricordato e studiato con stima e rispetto, più di ogni altro uomo politico di questo dopoguerra. Su Berlinguer sono usciti a più riprese raccolte di scritti e di testimonianze, alcuni studi impegnativi e ultimamente nelle sale cinematografiche è apparso anche un film che ne ricorda la vicenda umana e il percorso politico.

La ragione di questa attenzione sta, probabilmente, nel fatto che la figura di Berlinguer si identifica con una stagione politica in cui la sinistra ha saputo suscitare grandi speranze ed emozioni. Gli anni Settanta hanno rappresentato il punto più alto dell’influenza politica, elettorale e culturale della sinistra italiana: una stagione di partecipazione e di conquiste sociali e civili cui, nei decenni successivi, ha fatto seguito un declino lento ma inarrestabile. Per più generazioni il nome di Berlinguer, probabilmente, evoca passioni politiche intense e poi non più ritrovate, speranze vivissime perse per strada e trasformatesi con il tempo in amare disillusioni. Insomma il nome di Berlinguer sembra associarsi al tema di una struggente, e non immotivata, nostalgia.

In realtà Berlinguer merita anche altre riflessioni.

Innanzitutto il suo nome è indissolubilmente legato alla costruzione di un partito comunista sempre più autonomo politicamente da Mosca e sempre più distante culturalmente dal “socialismo reale”. Le tappe sono note: la gestione del dissenso con Mosca subito dopo l’invasione della Cecoslovacchia, l’esperienza dell’eurocomunismo a metà degli anni Settanta, l’orgogliosa rivendicazione di autonomia a Mosca in occasione della celebrazione del sessantesimo della Rivoluzione, la condanna dell’invasione dell’Afghanistan i primi giorni dell'80 e, a brevissima distanza, il celebre “strappo”, ovvero la sanzione, dopo il colpo di stato in Polonia, dell’“esaurimento della spinta propulsiva del modello di società nato dalla rivoluzione russa”.

Questa lunga vicenda non si concluse con un atto definitivo di rottura e, per una curiosa sorte, non si congiunse nemmeno con l’operazione Gorbaciov, decollata un anno dopo la morte del leader italiano. Resta però un fatto indiscutibile e denso di conseguenze: il Pci che Berlinguer lasciò alla sua morte era altra cosa dal PCI che cominciò a dirigere nel 1969. Nel 1984 quel partito non si considerava più parte del movimento comunista internazionale ed era diventato interlocutore di tutte le forze progressiste del mondo; non aveva ancora aderito alla famiglia del socialismo europeo, ma era considerato vicinissimo al socialismo democratico.

Insomma il PCI, nei quindici anni di direzione berlingueriana, cambia in profondità la propria cultura: diventa una forza di sinistra diversa, con un’opzione culturale e ideale sempre più netta e intransigente per la libertà e la democrazia. Questa evoluzione, lenta, graduale ma profonda, sarà destinata ad avere conseguenze profondissime sul sistema politico italiano. Il PCI, trasformatosi in PDS, diverrà l’intelaiatura portante della sinistra dopo la crisi traumatica del ’92.

Vi sono però altri aspetti della politica di Berlinguer che meritano di essere attentamente riflettuti e che, nella attuale stagione di crisi acutissima della politica, acquistano una luce sempre più viva.

Berlinguer avverte, prima e più intensamente di ogni altro esponente politico, che il sistema politico italiano sta scricchiolando. Suo è il primo vero allarme sulla degenerazione dei partiti e sui pericoli che ne conseguono per la vita democratica. La sua polemica al riguardo è notissima e altrettanto conosciuta è l’incomprensione che suscita, perfino in larga parte del gruppo dirigente del PCI. Meno riflettuto è il fatto che Berlinguer non si limita a denunciare rischi e pericolo: cerca anche di delineare una via d’uscita.

Gli ultimi anni della sua vita, intessuti di denunce dai toni forti e di scelte che apparvero anche molto radicali, possono essere letti come uno sforzo drammatico per costruire una risposta alla crisi della politica.

Si pensi alla sua scelta di recarsi tra gli operai della FIAT nel mezzo della lotta contro i licenziamenti di massa annunciati dall’azienda. Berlinguer con quel gesto vuole indicare che la politica e i partiti hanno il dovere della rappresentanza sociale, che la politica, insediata solo nelle istituzioni e preoccupata solo degli equilibri politici, è destinata a trasformarsi in una macchina di potere autoreferenziale. Sempre in quegli anni Berlinguer si butta a capofitto nella battaglia contro gli euromissili e per la pace, concentra la sua attenzione sui movimenti delle donne e dei giovani: insomma getta tutte le sue energie in uno sforzo drammatico per reiventare e ridare vigore alla politica.

Questa opzione di fondo si completa con un richiamo ricorrente, perfino ossessivo, a una politica alta e nobile, intessuta di idee e di valori. Il discorso pubblico di Berlinguer è sempre sorretto da una “narrazione”, da un’idea generale. Questa visione si esprime con immagini che si evolvono nel tempo: dall’iniziale “via italiana al socialismo” alla rivendicazione di “elementi di socialismo”, dall’“austerità” fino alla visione di un nuovo ordine globale sorretto da nuovi ideali di pace e di giustizia sociale.
Per usare le sue parole: la politica deve essere sempre sorretta da “pensieri lunghi”, ovvero da idee forti, non improvvisate, da uno sguardo oltre il contingente. Con ogni probabilità sta proprio qui la radici del “fascino che non passa” di Enrico Berlinguer. In un mondo dominato dalla demagogia populista, dalla politica ridotta a spettacolo, dall’improvvisazione finalizzata ad occupare lo spazio mediatico, il ricordo di Berlinguer evoca un’altra politica possibile, sobria e rigorosa, allergica alla demagogia, protesa alla rappresentanza dei cittadini, intessuta di un solido impianto ideale e valoriale. Insomma, un’idea di politica non finalizzata alla carriera o all’arricchimento personale, ma motivata da idee e valori per i quali valga la pena di spendere le energie migliori.

Milano, 8 maggio 2014

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Un gruppo di pedagogisti ha organizzato in Casa della Cultura, sabato 29 marzo, un convegno in ricordo di Ettore Gelpi. Hanno dato all'incontro il titolo forte, un po' provocatorio, "Resistenza pedagogica" e mi hanno chiesto un intervento. Ecco, di seguito, il testo del mio intervento.

Resistenza pedagogica

Ho accettato con qualche imprudenza di intervenire a questa tavola rotonda: ho conosciuto Ettore Gelpi solo in un’occasione, proprio qui, all’incirca verso la fine del 2001, per la presentazione di una rivista. Quel primo contatto non ha poi potuto avere ulteriori sviluppi.
In realtà ciò che mi ha convinto ad accettare l’invito è quel termine: “Resistenza pedagogica”. Dinanzi a quella espressione, suggestiva e inquietante, non potevo sottrarmi. Mi è subito rimbalzata in mente la definizione che un autorevole filosofo ha dato della Casa della Cultura stessa: “isola benedettina di resistenza”. Ecco quell’espressione che torna: resistenza. Quando la lessi per la prima volta mi fece sobbalzare: un po’ mi preoccupava quell’idea di isola, quell’idea di assedio ecc. Poi mi sono convinto che quell’espressione toccava un tasto reale, un punto importante, effettivo ecc. ecco allora la questione: resistenza a che cosa? Da parte di chi? Per che cosa? Questo è il punto su cui vorrei cercare di ragionare.

1 – Questa espressione, “Resistenza”, torna con insistenza: resistenza pedagogica … resistenza umana ( … tanti gruppi, attività, di resistenza umana … ). Vegetti, quando parlava di “resistenza benedettina” da parte della Casa della Cultura voleva dire, penso, che questo centro culturale mantiene il profilo della ricerca approfondita, finalizzata al medio e lungo periodo, insensibile alle sirene delle scorciatoie, della spettacolarizzazione. Insomma: resiste ad alcune tendenze oggi prevalenti, dominanti, da alcune meccanismi che si stanno imponendo con la forza degli schiacciasassi e che stanno deprivando la vita pubblica e la cultura di alcuni requisiti essenziali. Proviamo, allora, a ragionare in profondità su quella espressione “resistenza umana”, oggi così diffusa: essa, se ben capisco, sta a segnalare il bisogno di difendere la vita delle persone da alcune intrusioni che possono compromettere qualche tratto distintivo della vita propriamente umana.
Le questioni sono note: la penetrazione della logica del mercato, del valore di scambio, in tanti aspetti della vita privata; l’impoverimento dei legami sociali e la solitudine crescente; l’illusione che vi siano scorciatoie tecnologiche per compensare l’impoverimento della vita sociale; l’impoverimento della vita pubblica; la banalizzazione la spettacolarizzazione della vita culturale ecc. Insomma, tanti processi della vita pubblica e della vita personale stanno corrodendo e svuotando attività, modalità relazionali, modalità di lavoro e di divertimento che sono per noi inseparabili dall’idea stessa di una vita umana degna di essere vissuta.
Le denunce di tutto arrivano da più parti: da micromovimenti sociali che tentano di resistere e di inventare nuove forme relazionali ( in questi giorni si sta svolgendo a Milano la fiera: “Fai la cosa giusta”. Un significativo concentrato di queste forme di resistenza e di reinvenzione di attività umane che sfuggano alla logica della massimizzazione dell’utile .. ). Arrivano anche da studiosi di grande autorevolezza: Marta Nussbaum ha scritto, due - tre anni fa, un testo di grande interesse: “Non solo per profitto”, un’ostinata rivendicazione della ricerca di strade nuove per valorizzare le “capabilities”, le capacità, la ricchezza di potenzialità degli esseri umani. Insomma, questo tema della Resistenza umana ha ormai mille motivi per entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico.

2 – Oggi dobbiamo però focalizzare un punto più preciso: l’oggetto dell’incontro è un aspetto particolare di questa Resistenza, quella pedagogica. A me sembra che questa questione, al fondo, coincida con la questione essenziale di difendere e valorizzare l’ispirazione umanistica della formazione. Tema su cui abbiamo lavorato molto (abbiamo prodotto un manifesto, un’inchiesta: libro in uscita presso la Franco Angeli … discussione che torna con insistenza in questa sala: ultimo libro di Maria Martello ecc). Vorrei affrontarlo rapidamente da tre angolature, diverse ma convergenti:
a – Qualche settimana fa è uscito sulla rivista Il Mulino un appello per le scienze umane firmato tre autorevoli studiosi, Asor Rosa, Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia. Si tratta di una severa denuncia del declino della cultura umanistica in tutto l’Occidente. Esso si tocca con mano qui da noi anche con le continue proposte di riduzione delle ore di studio da dedicare alla filosofia o altre materie umanistiche, con la crescente tecnicizzazione dei criteri di valutazione, con la commistione tra la retorica del merito e quella del marketing aziendale applicato alle scuole e alle facoltà universitarie. D’altronde proprio qui vi era stata la proposta più radicale di spostamento dell’asse culturale: come non ricordare le famose tre I (impresa, inglese, informatica) cui avrebbe dovuto informarsi tutto il sistema della formazione.
Si tratta di un’involuzione del pensiero che rischia di svuotare anche il valore formativo della conoscenza scientifica, di ridurla solo alla ricerca di qualche scorciatoia tecnologica cui affidarsi come risolutore di ogni problema. Insomma, la prima questione su cui riflettere seriamente (la prima resistenza pedagogica!) riguarda proprio la salvaguardia del valore della cultura umanistica dentro il sistema complessivo dell’educazione e della formazione.
b – Una riflessione attenta merita anche il vasto campo della formazione degli adulti. Vi è qui una retorica dilagante, apparentemente rassicurante, sulla centralità della persona e sulla necessità di finalizzare alla sua valorizzazione ogni momento formativo. Si pensi all’argomentazione insistita sull’empowerment: letteralmente, mettere ogni persona nelle condizioni di avere più potere. Verrebbe da dire: cosa meglio di così? Salvo poi scoprire, a uno sguardo più ravvicinato, la lingua ambigua con cui questa suggestione viene declinata. L’autonomia del manager (o del lavoratore) è intesa nel senso di elargire impegno continuo e disponibilità assoluta. Più autonomo per essere completamente flessibile e subordinato alle esigenze aziendali: autonomo per essere del tutto subordinato all’azienda e al mercato.
La lingua ambigua, la lingua del management, mescola assieme con una raffinata sofistica l’impegno e la flessibilità, l’autonomia e il conformismo. Insomma, una doppia ingiunzione, un esempio classico di double bind: ti ordino una cosa perché tu sia completamente disponibile a trarne le conseguenze opposte. Si tratta di una retorica umanistica di facciata, usata per scaricare sull’individuo un sovraccarico, per costringerlo ad assumersi individualmente responsabilità che implicano invece cooperazione e condivisione, per formare un uomo senza spessore, dal carattere flessibile e predisposto accettare ogni vincolo esterno. Insomma, disposto e pronto ad adattarsi alle esigenze del mercato, qualunque esse siano. Penso che aziende e banche avrebbero tutto l’interesse a sottoporre a critica serrata questa sofistica manageriale, a rivedere quell’umanesimo di facciata di cui stiamo parlando. In aziende che, nel mondo globalizzato, sono sottoposte a prove competitive durissime, servono uomini e donne davvero liberi, responsabili ma proprio per questo capaci di visione d’insieme, di sguardo critico, capaci di muoversi e di scegliere secondo coscienza.
c – Terza e ultima questione, che ho lasciato alla fine non perché meno importante, ma perché più difficile, più controversa. Bisogna affrontarla con qualche cautela per non essere sommersi dall’accusa di conservatorismo, di avere lo sguardo rivolto all’indietro. Insomma, avrete capito, l’ultima questione riguarda il rapporto tra l’educazione e la formazione e le nuove tecnologie. Difficile ragionare di resistenza pedagogica eludendo questa questione.
Il problema, si dice generalmente, è il digital divide. In realtà questo è solo un aspetto del problema, di un problema assai più grande e difficile, ovvero la svalutazione del testo scritto, il ritorno a una nuova oralità dilagante, un’oralità però di tipo nuovo, un’oralità virtuale che può prescindere dalla infinita ricchezza connotativa della tradizionale relazione comunicativa.
Sto toccando una questione che assume addirittura aspetti epocali e sulla quale avverto tutta la difficoltà ad addentrarmi. Stiamo parlando però di qualcosa di estremamente concreto: il crollo della lettura dei quotidiani, la crisi perfino drammatica dell’editoria, la crisi del libro.
Stiamo avvicinandoci alla fine della civiltà di Gutenberg? Siamo in grado di intravederne le implicazioni? Crisi del libro significa crisi della grande letteratura, crisi del nostro canone culturale, crisi di quella dimensione culturale che aveva come presupposto l’interiorità, lo scavo, la riflessione sul medio e sul lungo periodo. Ci lamentiamo spesso di un brutale schiacciamento sul presente, di perdita della memoria e del progetto, ma tutto questo è solo l’altra faccia dell’immensa esplosione della comunicazione virtuale in rete.
Più rifletto, più analizzo sulla potenza della rete, più guardo cosa circola sui social network, più mi formo la convinzione delle immense potenzialità tecnologiche e scientifiche della rete, ma anche delle profonde controindicazioni per il sapere umanistico.
Vero? Sbagliato? Vorrei discuterne. Penso che questo oggi sia il nodo da affrontare di petto da parte di chi vuole ragionare seriamente di resistenza pedagogica. Dubbi enormi, ma che ci spingono a scelte concrete. Vedrete programmi nuovi qui in Casa della Cultura: inviti alla lettura, inviti a riscoprire il grande canone dell’Occidente, inviti a ri - immergerci nei grandi classici della nostra tradizione. Si tratta di scelte non casuali: al fondo vi sono i dubbi, le riflessioni, gli interrogativi che qui ( resistenza pedagogica! ) ho sentito il dovere di richiamare. In poche parole: a me sembra che il cuore di questa resistenza pedagogica non possa che consistere nel fare rivivere la grande lezione del nostro umanesimo illuministico.

Milano, 29 marzo 2014

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A Firenze è stato organizzato per il 9 e il 10 maggio un convegno sul movimento degli studenti dal 1968 al 1978. Mi hanno chiesto un contributo: ho inviato questo testo.

Il movimento degli studenti e il Pci negli anni incandescenti della solidarietà nazionale e del terrorismo.

1 - Ho accolto con piacere l’invito di Amos Cecchi di ritornare con la memoria sulla vicenda del movimento degli studenti verso la metà degli Anni Settanta: una questione su cui ho avuto mille occasioni e mille ragioni per riflettere a fondo, ma su cui, fino ad oggi, non avevo mai messo a punto una ricostruzione ordinata. Proviamo innanzitutto ad inquadrare la questione.
Amos nella sua relazione, che ricostruisce con puntualità e rigore il nostro dibattito interno, ha messo a fuoco scelte e vicende relative alla prima parte degli anni Settanta, fino alla vigilia di Natale del 1975, al Congresso della FGCI che ebbe luogo a Genova. A me spetterebbe il compito di ricostruire gli anni successivi fino alla Pasqua del 1978, al Congresso della FGCI che si svolse proprio qui a Firenze.
Poco più di due anni, ma in quei due anni cambiò tutto, o meglio - questa è la tesi che vi proporrò - proprio gli studenti e i giovani anticiparono con i loro umori e le loro scelte un cambiamento generale che stava maturando nella politica italiana e non solo italiana: una frattura, una linea di discontinuità, anzi un vero e proprio mutamento epocale. Tra i giovani e gli studenti vi furono le prime avvisaglie ( e furono avvisaglie drammatiche, perfino traumatiche ) del passaggio dai “trent’anni d’oro” del dopoguerra ai “trent’anni ingloriosi” della lunga e ancora non interrotta stagione del liberismo individualista.
Noi che eravamo immersi in quelle vicende giorno per giorno ci rendevamo conto solo in misura marginale di quanto stava accadendo. Ci volle tempo, molto tempo, per avere uno sguardo complessivo e un’interpretazione plausibile su quanto era accaduto.

2 – Torniamo innanzitutto su quanto è stato oggetto della relazione di Amos. I primi anni Settanta furono una bella e straordinaria congiuntura: i mille fermenti sociali e culturali che avevano attraversato gli anni Sessanta si stavano condensando in una nuova prospettiva politica. Il fenomeno, sia pure con scansioni temporali leggermente diverse, riguardava molti paesi. In Italia la forza politica che stava raccogliendo i frutti di quel profondo sommovimento sociale e del nuovo clima culturale era il PCI. I giovani e gli studenti, dopo l’intensa stagione del ’68 nella quale sembrò prevalere un atteggiamento polemico verso il PCI, orientarono largamente le loro aspettative verso questo partito. Noi, la FGCI, raccogliemmo, interpretammo e gestimmo questo nuovo umore che era andato maturando. Le nostre scelte di allora, i nostri dibattiti – così accuratamente ricostruiti da Amos - debbono essere inscritti dentro questo quadro generale.
Lasciatemi ricostruire il clima di quei quattro, cinque anni. Per una serie di contingenze che non è il caso qui neppure di accennare il PCI divenne il coagulo di mille diverse aspettative di cambiamento. Quel partito sembrava allora garantire utopia, ovvero cambiamento profondo, e realismo: qui passava la linea netta di demarcazione con i vari estremismi. Noi, la FGCI, gli studenti comunisti, stavamo proprio su questa linea di frontiera. Il dialogo con gli estremisti non si interruppe mai, fino al febbraio ’77: alle spalle, sia noi che loro, avevamo il ’68, quelle aspettative e quel clima culturale.
Ma noi – questa era la nostra convinzione - avevamo trovato la strada per cambiare senza inseguire sogni generosi ma inconcludenti e senza cadere in pericolosi avventurismi. Stare con noi voleva dire esattamente avere maturato questa scelta. Per tre, quattro anni questa opzione fu via via sempre più limpida e seducente e raggiunse tra i giovani e gli studenti un consenso di massa. Al punto che nelle prime elezioni studentesche per i Decreti delegati, nella primavera ’75, nonostante la campagna astensionista delle formazioni estremiste, le nostre liste tra gli studenti medi – ma altrettanto accadde nelle prime elezioni dei nuovi organismi universitari - raccolsero un consenso largamente maggioritario.
E’ qui, esattamente in questo scenario, che si iscrive il successo degli OSA (Organismi studenteschi autonomi): ovvero le strutture di movimento che raccoglievano gli studenti che volevano cambiare la scuola e il mondo con la lotta democratica e con le riforme. Tutta una cultura sembrava garantire una potente chiave interpretativa del mondo. O, almeno, a noi pareva così. Leggevamo del “moderno principe” e lo vedevamo inverarsi in un partito vivo, autorevole, in espansione. Parlavamo di “riforma morale e intellettuale” e toccavamo con mano il protagonismo operaio e la partecipazione dal basso, il trionfo nel referendum sul divorzio e i primi imponenti, coloratissimi cortei del movimento delle donne. La “via italiana al socialismo” appariva una prospettiva teorica e politica convincente e realistica.
Vivemmo dentro quel clima e quell’ebbrezza fino al giugno ’75, fino alla vittoria elettorale nelle elezioni amministrative e regionali del PCI, anzi: fino alla fine dell’anno, fino per l’appunto al congresso di Genova. Dall’inizio del 76, fin dai primi mesi, qualcosa cominciò a cambiare: le orecchie più attente avvertirono presto qualche primo scricchiolio (come non ricordare alcuni articoli sui giovani scritti tra il 74 e il 75 da Pasolini e che poi, a distanza di un paio d’anni, risuoneranno nelle nostre orecchie con un suono quasi profetico!). Da lì a poco fu uno sconquasso, proprio tra gli studenti e tra i giovani. Ed è esattamente questa la storia su cui ora dobbiamo ragionare.

3 – Il Congresso di Genova aveva passato al nuovo gruppo dirigente una FGCI robusta, ben radicata nel paese (più o meno 150.000 iscritti), con strutture vive nelle scuole, gli OSA per l’appunto, e con alcune nuove proposte, tutte da verificare e costruire, come quella dei “consigli” come nuova organizzazione di base degli studenti. Era evidente qui la suggestione dell’esperienza sindacale, i consigli di fabbrica. Soprattutto vi era l’idea che anche gli studenti, proprio come gli operai, fossero un blocco socialmente compatto, con una comunanza di interessi da rappresentare.
Le prime difficoltà cominciarono ad avvertirsi proprio quando tentammo di rendere operativa questa scelta.
Per costruire i consigli degli studenti occorreva un consenso di massima delle varie forze studentesche operanti nelle scuole. All’apparenza nessuno sembrava sottrarsi a questa scelta. In realtà si aprì una discussione tormentata sui criteri di elezione (nomina secca, su scheda bianca, come nelle fabbriche, oppure riconoscimento delle minoranze: ad ogni studente due opzioni di voto per tre delegati).
Fu il primo segno di qualcosa che si stava incrinando: di consigli degli studenti ne nacquero pochi e quei pochi furono paralizzati, attraversati da incomprensioni e tensioni crescenti tra le forze politiche studentesche. L’idea che si potesse unire tutti gli studenti in una comune rappresentanza – facciamo attenzione: la proposta di unità delle forze sociali e politiche era in quel momento il punto essenziale della strategia politica e sociale del PCI – quell’idea di unità non trovava proprio le basi per decollare nel mondo studentesco. Quella strategia cominciava a incepparsi proprio lì, tra gli studenti, tra quegli studenti che erano stati uno dei punti di forza dell’espansione del consenso del PCI.

4 - Giugno ‘76: elezioni politiche generali. Il PCI consolida la sua avanzata, ma le urne dicono che il primo partito, per di più in ripresa elettorale sul ‘75, è la DC. Comincia la stagione politica della “non sfiducia”, dell’ “astensione” ai governi Andreotti. Un cambio brusco, radicale di clima politico: dopo una lunga, montante euforia ci si addentrava in un’estenuante attesa che per molti significò da subito una brusca disillusione. Le grandi speranze che si erano riversate sul PCI avevano portato solo all’astensione ad un governo diretto dall’uomo che più di ogni altro impersonava la continuità del sistema democristiano.
La delusione fu forte. Tra i giovani il cambiamento di clima fu tanto rapido e immediato quanto palpabile: si cominciò a parlare di “riflusso” e di “privato”, si intravidero (a Bologna, attorno a una radio privata, Radio Alice) i primi segni di una presenza giovanile eterodossa, capace di ironia graffiante e di dissacrazione generalizzata. In quella situazione nuova mettemmo a punto (in un seminario preparatorio in settembre ad Albinea e in una assemblea nazionale degli studenti della FGCI che si svolse a ottobre in un teatro a Roma, al Teatro delle Arti se ben ricordo) una strategia articolata in due obiettivi di fondo: incalzare con le iniziative di lotta il governo “non - nemico” sui grandi temi delle riforme della scuola e dell’Università; accompagnare questa iniziativa con la formazione di un’associazione studentesca.
Si trattava insomma di riprendere la vecchia e brillante operazione degli OSA con il proposito di ampliarne la rappresentanza politica e di strutturarla formalmente e stabilmente. Per alcuni mesi le cose sembrarono camminare nel verso giusto, come quando, nel tardo autunno, con una imponente manifestazione degli studenti romani, proprio noi osammo, per primi, rompere la tregua sociale che aveva accompagnato la nascita del “governo delle astensioni”. Su di noi gravava l’incertezza e l’insoddisfazione per quel governo, ma il nostro tessuto organizzativo restava solido e soprattutto era ancora viva la speranza che prima o poi saremmo riusciti a forzare e sbloccare la situazione e a dare una risposta alle aspettative di cambiamento del mondo giovanile e studentesco. Insomma, erano mesi incerti, con qualche nube all’orizzonte, ma ancora aperti alla speranza.
Dopo le vacanze di Natale, i primi giorni del gennaio ‘77, il quadro cominciò ad incrinarsi rapidamente: arrivavano le prime notizie di qualcosa che si stava muovendo in modo turbolento nelle Università. L’iniziativa era partita dai giovani docenti, gli “assistenti” si diceva allora, esasperati da anni interminabili di incertezze lavorative. Poi il fatto nuovo: l’occupazione dell’Università di Roma, con gli studenti assieme agli assistenti.
A noi non era chiaro cosa stesse davvero accadendo: chi, dove, come, quando avesse deciso questa iniziativa. Alla guida non vi erano i vecchi gruppi estremisti, nel frattempo scioltisi (come Lotta Continua) o comunque mal conciati dopo la disastrosa avventura elettorale della lista “Democrazia Proletaria” alle elezioni politiche del 1976. Vi era qualcosa altro che non conoscevamo. Ricordo con precisione i nostri commenti mentre osservavamo alcune manifestazioni di quel gennaio e dei primi giorni di febbraio: alla testa dei cortei non vi erano i “vecchi estremisti”, vi erano “collettivi autonomi” allora poco conosciuti e gli slogan era assai più aggressivi, minacciosi, perfino truculenti. Insomma stava accadendo qualcosa di cui a noi sfuggivano i contorni precisi.
La situazione precipitò all’Università di Roma. Il PCI romano non accettava quell’occupazione, si mosse per rimuoverla e ingaggiò un braccio di ferro per affermare il proprio diritto, diremmo oggi, all’agibilità politica in uno dei luoghi strategici della vita pubblica romana, uno dei punti di forza del proprio radicamento nella città. Lo scenario si surriscaldò in rapidissima successione fino a giungere all’evento spartiacque, a quel giovedì 17 febbraio in cui Luciano Lama venne cacciato dall’Università a seguito di un assalto da parte degli “autonomi”.
Dopo quel 17 febbraio la situazione si accelerò in modo drammatico, giorno per giorno, lungo quell’asse Roma – Bologna che divenne via via sempre più caldo, fino a quell’11 marzo in cui a Bologna venne ucciso dai carabinieri, durante una manifestazione, lo studente Lorusso. Il giorno dopo a Roma, il 12 marzo, si svolse il corteo nazionale del “movimento”. Quella manifestazione, tanto imponente quanto cupa e minacciosa, segnò anche la prima pubblica prova di forza del nuovo sgradevole protagonista della vita pubblica italiana, il “partito armato”.
Siamo ormai nel pieno di quello che è entrato nella storia come il “movimento del ‘77”. Su di esso è stato scritto di tutto: non è mia intenzione ripercorrerne le vicende ed entrarvi nel merito. A me qui interessa solo la rifrazione di quel movimento sulla FGCI e su quell’area studentesca che, nonostante la situazione così complessa e a tratti incandescente, mantenne un rapporto di interazione e di fiducia con noi.

5 – Per noi, per la FGCI e il suo gruppo dirigente, fu un passaggio assai arduo. Innanzitutto cercavamo di capire. Non eravamo stati noi a spingere al braccio di ferro all’Università di Roma, anzi avevamo cercato di dissuadere il partito da quella infelice prova di forza con Luciano Lama. Poi, quando la situazione era precipitata, abbiamo cercato di ridefinire la nostra posizione: la nostra preoccupazione era non perdere i contatti con un mondo studentesco attraversato da questa improvvisa inquietudine, effervescenza, radicalità.
Massimo D’Alema, allora segretario della FGCI, sintetizzò il tutto, in un difficile e importante Comitato Centrale della FGCI che ebbe luogo dopo la cacciata di Lama dall’Università di Roma, nella parola d’ordine “stare nel movimento”. La stessa posizione venne proposta da D’Alema nella relazione che svolse al Comitato Centrale del PCI convocato proprio nei giorni immediatamente successivi alla manifestazione del 12 marzo. Su quella linea si attestò di fatto tutta la FGCI e quella posizione fu dignitosamente mantenuta anche nel difficile confronto con il PCI. Ricordo assai bene quel CC: mi venne data la parola subito dopo un intervento dirompente di Giorgio Amendola. Ho ritrovato e riletto quel mio intervento: era ben costruito, articolato nel ragionamento, ricordo che venne anche apprezzato da Pajetta e dai pochi che non avevano lasciato la sala dopo l’intervento di Amendola. Ricordo anche però che, mentre parlavo, mi chiedevo quale effetto avrebbero potuto avere le mie parole dopo un intervento tanto tranchant quanto autorevole come quello di Giorgio Amendola.
Insomma, noi, la FGCI, cercavamo di attestarci sulla posizione: “stare nel movimento”. Il Partito dal canto suo aveva deciso che il vero problema era l’insorgenza del partito armato: esso doveva essere contrastato con intransigenza. Nel CC del partito alla relazione di D’Alema fece seguito una breve comunicazione di Bufalini: pochi minuti per dire “priorità assoluta: stroncare il nascente partito armato”. In quella differenza di accenti vi erano tutti i dilemmi che avremmo di fatto incontrato e affrontato nei mesi successivi.

6 – “Stare nel movimento”: una scelta che sapevamo difficile e che tale si dimostrò nello sforzo di applicarla. A Roma, in primavera, decidemmo di partecipare a una manifestazione studentesca “unitaria”, del movimento: i partecipanti erano tanti, ma il corteo presentava una cacofonia inquietante. A spezzoni di corteo segnati dalla nostra presenza se ne alternavano altri inneggianti alla “P38”: stare “nel movimento” era davvero complicato. Il giorno dopo L’Unità ci riservò un’ulteriore sgradevole sorpresa: un lungo corsivo, non firmato, che criticava impietosamente quel corteo con toni del tipo: “gli studenti comunisti non devono partecipare a cortei …”. In realtà, scoprimmo poi, era accaduto che un dirigente autorevole del partito (autorevolezza che mantiene ancora oggi: è l’unico nella storia repubblicana ad essere stato eletto per due volte al Quirinale!) aveva casualmente assistito al corteo e aveva deciso di esprimere con una modalità inconsueta la sua severa valutazione: aveva incaricato un giornalista di fiducia di stendere quel severo corsivo.
Era davvero complicato per noi, per la FGCI, tenere dritta la barra del timone in quei frangenti, ma, come si vide rapidamente, era difficile anche per il PCI! Lo si colse assai bene In occasione dell’evento clou dell’autunno, il raduno nazionale ( e internazionale! ) del movimento che si svolse a Bologna dal 23 al 25 settembre. Il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, dal comizio del palco dell’Unità aveva apostrofato quei giovani che si stavano preparando a confluire a Bologna come “poveri untorelli”. Nonostante ciò il Partito si impegnò allo spasimo per fare di Bologna, durante i tre giorni del raduno studentesco, una “città aperta”, impegnata ad accogliere e discutere in tutti modi possibili con quel mondo giovanile.
Poco dopo accadde un altro fatto che suscitò una viva emozione: un giovane studente di Lotta Continua, Walter Rossi, venne assassinato a Roma, il 29 settembre, durante un raid fascista. I funerali, svoltisi il 1 ottobre, si trasformarono in un’immensa manifestazione giovanile: quella volta vi parteciparono tutti, senza bandiere, e senza provocazioni. E alla testa del corteo, in rappresentanza del PCI, vi era proprio Paolo Bufalini che, dopo la manifestazione, di sua penna, scrisse il comunicato ufficiale del Partito che valorizzava la “grandiosa e civile risposta degli studenti”. Mentre scriveva quel comunicato Bufalini non era ancora stato raggiunto dalla notizia che dal corteo studentesco di Torino si era staccato uno spezzone che aveva assalito con bombe molotov un bar, “L’angelo azzurro”, provocando la morte per bruciature di un giovane, Roberto Crescenzio, che si trovava lì per caso. L’aggettivo “civile” scomparve così dal comunicato ufficiale del PCI.

7 – La questione, al fondo, era molto chiara: tenere aperto il dialogo e l’interlocuzione con il mondo giovanile e nel contempo contrastare con ogni forza il fenomeno della violenza e dell’insorgente terrorismo. I mesi successivi al 12 marzo, con l’irruzione sulla scena del “partito armato”, misero a prova sempre più dura questa nostra strategia.
L’“autonomia operaia” prese sempre più il controllo di un movimento in fase ormai declinante. Generalmente sui libri di storia il ’77 viene ricordato con le foto di una manifestazione svoltasi a Milano il 14 maggio, quando bande di autonomi scatenate dopo un corteo studentesco uccisero l’agente Custrà. Quelle foto ancora oggi suscitano sconcerto, sgomento, dolore: giovanissimi con il volto coperto, che impugnano pesanti pistole e che, a gambe piegate, cercano la posizione migliore per sparare su bersagli umani!
Nel contempo dilagava l’azione dei gruppi terroristi: Brigate Rosse e, poi, Prima Linea e altri gruppi minori, iniziarono una serie devastante di attentati che culmineranno, la primavere successiva, nel rapimento e assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Il Congresso della FGCI di Firenze – dove si interrompe questa narrazione - si svolse proprio mentre era in corso il rapimento del Presidente della DC. La FGCI si trovava proprio nella frontiera più avanzata ed esposta nella lotta contro la violenza terroristica. Non era facile argomentare in modo convincente: si pensi, per dare un’idea della discussione aperta, alla polemica tra Amendola e Sciascia sulla difesa di “questo stato”.
Le difficoltà assai serie che incontrava il PCI a convincere intellettuali e cittadini a impegnarsi nella lotta contro il terrorismo erano moltiplicate per noi giovani: da una parte le bande armate, dall’altra i corpi repressivi dello stato diretti in modo tutt’altro che cristallino ( si pensi ai piduisti che pullulavano allora al Ministero degli Interni diretto da Francesco Cossiga ). In mezzo, noi, la FGCI, che argomentavamo per la democrazia, la tolleranza, la civiltà.
Possiamo dire, in fase di bilancio complessivo, che trovammo la forza di tenere e che tutta la FGCI seppe attestarsi su queste posizioni. Qualche ammiccamento fuori luogo vi fu, forse, solo nella direzione del nostro giornale, “La Città Futura”: forse si trattava di curiosità culturale o, forse, più probabilmente, di ricerca dell’effetto a ogni costo, di esibizione di una spregiudicatezza di maniera.

8 - Nel mezzo di questa autentica bufera trovammo le forze e la tenacia anche per riprendere il filo del ragionamento sull’organizzazione studentesca. Dopo l’estate ’77 l’onda del movimento era ormai in fase calante: ricominciammo a ragionare dell’Associazione degli studenti. Facemmo anche alcuni primi tentativi per avviarla raccordando le esperienze di diverse città.
Si trattava in realtà di un lavoro preparatorio – impossibile da concretizzarsi in quel contesto - che avrebbe dato i frutti più avanti: all’Associazione studentesca si arriverà con molti anni di ritardo, in tutt’altro contesto, con una modalità organizzativa appoggiata al sindacato.
Di certo, pur in un contesto alterato da fatti così dirompenti, riuscimmo a tenere aperti nelle scuole e nelle Università spazi di ragionevolezza, a fare risuonare voci che, invece che di “nuovi bisogni” o di “assalto allo stato”, parlavano di contrasto alla cultura della violenza, di difesa della democrazia, di riforma della scuola e dell’Università, di nuova qualità del lavoro, di coesione sociale e di civiltà. Insomma in quei mesi durissimi di lotta politica e ideale noi, e con noi tanti giovani, fummo capaci di scelte chiare su questioni essenziali della lotta politica e della convivenza civile. A distanza di anni ci sentiamo di dire che non fu poca cosa.

9 - Ultima questione: in avvio di questa relazione ho accennato ai prodromi di un mutamento epocale che ci veniva segnalato proprio dai giovani e dagli studenti. Proviamo ora a chiarire il senso di questa affermazione.
C’è un punto di fondo che differenzia il ‘77 dal ‘68. Nel ‘68 la domanda prepotente di nuove libertà individuali - libertà nei rapporti sociali, nei costumi, nella vita pubblica - continuava a poggiare sulla convinzione che essa potesse essere raggiunta entro uno scenario di emancipazione delle classi oppresse e di espansione della giustizia sociale. Probabilmente il ‘68 è il punto più alto di quella tendenza che ha segnato tutti i “trent’anni d’oro”, ovvero la convergenza tra la domanda di libertà personale e l’esigenza di giustizia sociale.
Il ‘77 ha segnato la prima plateale rottura di questa tendenza e di questo equilibrio. Nella cultura del “movimento” la libertà e i bisogni dell’individuo sono “a prescindere”. Il tutto era avvolto da un involucro di radicalità e impazienza, dall’esaltazione del gesto radicale, ma al fondo l’idea che cominciava a diffondersi era che ognuno dovesse pensare a se stesso. Una rottura radicale, prodromo di una tendenza che di lì a poco sarebbe diventata irreversibile. I “trent’anni ingloriosi” segnano il tramonto della generosa speranza del dopoguerra: dai primi anni ottanta in poi il terreno sarebbe stato occupato da un nuovo individualismo aggressivo, quel vero e proprio iper - individualismo che ha dato il segno più profondo a questa nostra epoca. I presupposti di tutto ciò cominciarono a manifestarsi proprio allora, tra i giovani e gli studenti, in quel turbolento 1977!
Come si vede, nuovi e difficili furono gli avvenimenti e i processi sociali e culturali con cui ci dovemmo misurare in quel breve lasso di tempo, dal gennaio 1976 alla Pasqua 1978, tra un Congresso e l’altro della FGCI. Di certo per noi furono “anni assai interessanti”.

Milano, Casa della Cultura, 31 marzo 2014 

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Per una bussola umanistica

Intervento di Ferruccio Capelli al Convegno "Neoumanesimo e formazione umana nella società contemporanea"

Tre questioni: le ragioni generali per cui è giusto e urgente ragionare di un nuovo umanesimo; l’importanza dell’approccio umanistico nella formazione degli adulti, in particolare in quella manageriale; come sostenere l’autonomia e la libertà della persona.

Innanzitutto vorrei ringraziare Micaela e Duccio per questo convegno: proporre oggi la questione del “nuovo umanesimo” non è così semplice e scontato. Il tema circola, è nell’aria (quasi ogni giorno qualche cenno, qualche articolo…), eppure vi sono anche molte reticenze, quasi un imbarazzo a tematizzarlo, a proporlo esplicitamente alla discussione. Anche un paio di sere fa, proprio qui, dopo che avevo fatto un cenno all’attualità e all’urgenza dei un nuovo umanesimo, mi è stato chiesto, da parte di un attento studioso dell’ecologismo, di lasciare cadere, di evitare di proporre questa questione.
C’è (nel mondo a noi vicino) qualcosa che fa velo ad affrontare e accettare questa proposta, un misto di incertezza, di fastidio, di imbarazzo. Per tante ragioni, anche molto diverse tra di loro. L’ambientalista cui facevo riferimento teme il riaffiorare di antiche suggestioni dell’umanesimo prometeico, indifferente o insensibile al problema dell’equilibrio con la natura e con l’ambiente.
Più a fondo: vi è un certo disinteresse dinanzi a parole d’ordine unificanti, a proposte che possono sembrare nello stesso tempo o troppo impegnative o troppo semplici, banali, ingenue. Probabilmente pesa qui il disincanto che ha accompagnato una lunga, assai lunga stagione culturale: da più di trent’anni ci raccontiamo la “fine delle narrazioni” (ricordate la tesi centrale del celebre libro di Lyotard, “La condizione postmoderna?”, uscito nel fatidico 1979?) e ci siamo abituati ad accettarla come un dato di fatto non discutibile. La risposta alle dure repliche della storia, è stato detto per trenta e più anni, può essere solo il gioco, la leggerezza. Un altro modo per dire: in gioventù abbiamo sognato e sperato, le cose sono andate diversamente, non abbiamo più intenzione di cadere in preda di facili e ingenue illusioni. Il bandolo della storia non è afferrabile: tanto vale ritagliarsi gli spazi per le nostre libertà personali, senza proporsi impropri e indefinibili obiettivi generali.
Ma il problema è che, nonostante quanto ci hanno detto e spiegato i disincantati sostenitori del postmoderno, la storia è andata avanti lo stesso e comincia a presentarci conti inquietanti, cui dobbiamo tentare di dare qualche risposta. Come suggerisco nel titolo di questa mia comunicazione: dobbiamo cercare di riafferrare una bussola per capire dove stiamo andando e, magari, anche per aiutarci a scegliere, noi, liberamente, la strada dove, per quanto possiamo, in base alle nostre forze, vorremmo andare.

Per rendere più chiaro il ragionamento, per spiegare perché lo ritengo urgente e non più rinviabile, propongo di partire da quanto accaduto questa estate. Nel pieno dell’estate è accaduto qualcosa di molto importante, destinato a entrare nei libri di storia. Siamo agli inizi di agosto, nel pieno dell’aggressione speculativa dei mercati finanziari al debito pubblico dell’area euro. I governi erano incerti sulla strada da perseguire. A quel punto entra in campo un soggetto nuovo: la Banca Centrale europea scrive una lettera (mi si dice che avrebbe dovuto restare segreta e che l’autore materiale di quella scrittura è oggi molto infastidito per il fatto che sia rimasta traccia scritta di quella vicenda). In quella lettera la BCE fissa degli obiettivi che devono essere perseguiti a ogni costo: tagli drastici della spesa pubblica e liberalizzazione del mercato del lavoro. Come dirà a un certo punto l’estensore della lettera (un’altra esternazione di cui poi si è pentito): bisogna prendere atto che il modello sociale europeo è finito.
Non voglio annoiarvi ricostruendo quanto accaduto dopo quella lettera: usciremmo fuori dal seminato di questo convegno. Basta richiamare il punto centrale: nei sette, otto mesi che sono passati da allora tutti i governi e i parlamenti europei non fanno altro che applicare quanto scritto in quei pochi foglietti: liberalizzazioni a ogni costo dei mercati del lavoro (abbattimento di tutte le normative di difesa dei lavoratori, come in Grecia dove per fronteggiare il debito pubblico hanno tagliato quattordicesime, tredicesime, abbassato vertiginosamente i minimi salariali), riduzione drastica del sistema pubblico di protezione sociale, sgombero di ogni cosa che possa turbare i mercati. L’unico obiettivo della vita pubblica nei paesi europei è diventato: “rassicurare i mercati”.
Insomma: tutti, volenti o nolenti, siamo costretti ad accorgerci che sopra di noi si è creata una realtà senza volto, anonima e impersonale, che detta l’agenda della vita pubblica, che fissa gli obiettivi che devono perseguire governi e parlamenti, che interferisce e cambia la nostra vita personale. Per consuetudine, quasi senza accorgerci, abbiamo imparato a denominarla “i mercati” senza sapere neppure bene che cosa siano, di cosa stiamo parlando. “Mercati”, al plurale, notate bene: perché al singolare il significato è molto diverso.
Chi sono questi mercati, costoro che decidono della nostra vita? I nove banchieri di cui parlava un famoso editoriale del New York Times che si riuniscono una volta alla settimana? Oppure i gestori dei fondi di investimento? Oppure i signori della finanza parallela, quelli dell’immensa montagna di derivati e di credit default swap? Oppure ancora le gigantesche batterie di computer programmati per intervenire automaticamente a ogni variazione dei prezzi delle azioni e delle obbligazioni?

A questa domanda cruciale, ovvero a chi comanda oggi nel mondo, sembra che nessuno sappia rispondere. Nelle nostre menti, mentre cerchiamo di mettere in chiaro questi concetti, tornano immagini sorprendenti. Ci accorgiamo che nella nostra testa ritornano le suggestioni di antichi miti. Tutti conoscono uno dei miti fondanti di Atene: Teseo che con l’aiuto di Arianna sconfigge il Minotauro, il mostro metà bestia e metà uomo, cui la città doveva sacrificare i suoi giovani migliori. Atene, ci dice il mito antico, diventa una città libera grazie al fatto che Teseo riesce a uccidere quel mostro.
Qui, sotto i nostri occhi, sta accadendo qualcosa di simile, ma con un percorso esattamente rovesciato: la nostra democrazia si sta dimostrando impotente dinanzi a questo nuovo mostro, i mercati, metà uomo e metà macchina. Incapaci di fronteggiarlo i rappresentanti dei cittadini cercano di calmarlo sacrificando a esso il futuro dei nostri giovani.
Insomma dinanzi a ognuno di noi ha preso corpo, si è eretto un potere nuovo, impersonale, che si arroga il diritto di decidere sulla nostra vita. Penso che sia nostro dovere chiederci se questa deriva sia inesorabile oppure se vi siano delle possibili vie d’uscita. A me sembra, ecco la questione, che noi non possiamo mai dimenticarci che dinanzi a questo immenso potere tecno – economico vi sono degli esseri umani in carne e ossa, con i loro bisogni, i loro affetti, i loro desideri, in una parola con la loro vita. La vita degli esseri umani: ecco il centro convergente delle nostre riflessioni e delle nostre scelte.
Dinanzi all’incombere di poteri che sfuggono ad ogni controllo dobbiamo riscoprire e rivalorizzare una linea di “resistenza umana”: qui sta secondo me il filo conduttore della ricerca per (e di) un “nuovo umanesimo”.
Ovviamente so bene che ci muoviamo dentro un solco già scavato nel passato: ogni qual volta si è arrivati a un punto grave di crisi si è cercato di recuperare quel messaggio umanistico che sta alle radici della civiltà occidentale. Durante la notte degli Anni Trenta e poi durante la seconda guerra c’è stato un lavoro intenso di recupero e rielaborazione del messaggio umanistico: laici e cattolici, con angolature diverse, misero in moto uno sforzo potente di pensiero per riproporre il nucleo fondante della nostra civiltà.
A me sembra che qualcosa del genere ci attende anche oggi: mentre si delinea l’ombra del declino dell’Europa, mentre è in discussione la natura stessa della polis democratica, mentre la democrazia viene svuotata e smontata per lasciare il posto a un nuovo potere tecno – oligarchico, ci accorgiamo che dobbiamo tornare a ragionare di “resistenza” e di “impegno”, ovvero di qualcosa che ci permetta di recuperare i valori propriamente umani della nostra vita e della nostra convivenza.
Un nuovo umanesimo può svolgere allora la funzione di un’idea guida, come una bussola per orientarsi, per guidare una ricerca nuova, per riattivare un pensiero critico e non subalterno ai “mercati”. Il problema, lo sappiamo molto bene, è che da decenni ormai in campo c’è una sola narrazione: l’ideologia liberista con la cieca fiducia nella capacità di autoregolamentazione dei mercati, con la reinterpretazione della società e della stessa vita personale come campi che devono essere soggetti e regolati dalla logica dei mercati.

Un solo episodio per ricordare quanto questa ideologia è penetrata in profondità. Quando uscirono le prime intercettazioni sul bunga – bunga venne reso noto un fatto che, purtroppo, a modo suo è illuminante. Un gruppo di giovani donne, dopo una notte passata nella villa dell’allora Presidente del Consiglio, viene raggiunta e circondata dai parenti più intimi e, ci narrano le intercettazioni, la prima domanda che viene rivolta a queste giovani donne è quanto abbia reso una notte passata nella villa dell’uomo più ricco del paese. Si tratta di una vicenda che, nel suo squallore, ben sintetizza un umore culturale e una scala valoriale: tutto, anche la vita più intima, sono misurati solo attraverso il misuratore del mercato.
E’ questa profonda e dura incrostazione ideologica, questo paradigma individualista e utilitarista, che deve essere sottoposto a revisione e ripensamento critico per rielaborare un’altra scala valoriale, un’altra agenda, altre idee forti. Ed è bene allora notare che il sintagma su cui stiamo ragionando, nuovo umanesimo, è fatto da un sostantivo e da un aggettivo. Rispetto alla tradizione dell’umanesimo occidentale vi sono almeno due questioni da precisare.
La prima, su questo aveva ragione l’ambientalista con cui abbiamo discusso qui lunedì sera, riguarda il rapporto con la natura e con l’ambiente: impossibile oggi pensare a un umanesimo che non sottoponga a critica l’hubris prometeica e non rielabori e reincorpori anche l’idea del limite. E l’altro punto essenziale riguarda la tradizione di autosufficienza dell’uomo occidentale: non è più tempo di fardelli dell’uomo bianco, è tempo invece di culture che si incontrano, di differenze e di interculturalità, di meticciato, perfino di sincretismo.

La mia convinzione è che questa ricerca di un nuovo umanesimo può maturare per tante diverse sollecitazioni. Personalmente ho cominciato ad afferrare questo grumo di questioni nella mia esperienza professionale: per cercare di svolgere al meglio la mia attività di formatore anni fa mi ero immerso seriamente nella studio della letteratura manageriale. Due concetti soprattutto, fra loro per altro strettamente intrecciati, mi sembrava meritassero particolare attenzione: lean production e empowerment. La produzione snella, argomenta tutta una letteratura, presuppone un nuovo protagonismo dei lavoratori stessi: ecco allora l’empowerment che significa letteralmente rafforzamento del potere, quindi valorizzazione del ruolo, delle funzioni, del protagonismo di ogni singolo lavoratore. Lo schema, diciamolo francamente, è affascinante: la disarticolazione della vecchia e rigida struttura fordista dell’azienda sposta l’accento sull’autonomia del manager e del lavoratore e sembra contenere, almeno a prima vista, un’implicita e forte valorizzazione dell’individuo, della persona.
Mi sono accorto ben presto però che in questo schema teorico c’è un punto dirimente di ambiguità: quell’autonomia del manager e del lavoratore, apparentemente così valorizzata, è intesa nel senso di disponibilità ad elargire impegno continuo e disponibilità assoluta. Autonomo per essere più flessibile, anzi completamente flessibile e subordinato alle esigenze aziendali in continua variazione. Autonomo per essere del tutto vincolato e subordinato alle esigenze dell’azienda e del mercato. Autonomo per potersi caricare sulle spalle la responsabilità di loro eventuali fallimenti.
Per sostenere questo ragionamento si è sviluppata una raffinata sofistica manageriale, una vera e propria “lingua ambigua” che ha imparato ad intrecciare assieme una cosa e il suo contrario: l’impegno e la flessibilità, l’autonomia e il conformismo. Al centro vi è una doppia ingiunzione: sii autonomo per essere completamente sottoposto all’azienda e al mercato. Un esempio classico di double bind, di doppio legame: ti ordino una cosa perché tu sia disponibile a trarne le conseguenze opposte.
Il tutto con una finalità chiara, evidente: costruire un management e un personale aziendale pronto a concedere una disponibilità assoluta alle esigenze del mercato e dell’azienda proprio perché convinto di farlo per libera scelta. Si tratta di una punta estrema, particolarmente raffinata, del conformismo e della manipolazione: far credere agli schiavi di essere padroni di se stessi. Una schiavitù dorata, ovviamente, volontaria, autonoma, liberamente scelta; ma che non ammette deroghe. O sei dentro (e ne accetti tutte le conseguenze) o sei fuori. L’uomo a cui pensa questa cultura manageriale è una persona in grado di adattarsi a ogni circostanza, un uomo senza spessore, dove ciò che conta non è l’interiorità o la forza dei suoi valori ma la flessibilità del suo carattere e la predisposizione ad accettare ogni vincolo esterno. L’umanesimo, che sembrerebbe evocato attraverso i richiami alla libertà e all’autonomia della persona, è ridotto a pura facciata. L’etica è priva di una sua essenza autonoma: essa è governata dalla legge del mercato. Un manager e un lavoratore sono valutati solo sulla base della loro capacità di adattamento del mercato.

Si può così capire allora la particolare declinazione che il paradigma individualista ha preso in molti testi che hanno furoreggiato nel mondo manageriale. In uno di essi, in “La virtù dell’egoismo” di Ayn Rand, possiamo leggere testualmente: “La vita è una giungla dove sopravvivono solo i migliori. Per reggere la prova bisogna abituarsi a spingere al di là dei limiti”. Anche troppo facile leggere qui i presupposti e le giustificazioni che hanno spinto formatori troppo zelanti, incuranti perfino del ridicolo, a inventare proposte “formative” come le prove dei carboni ardenti e le immersioni con gli squali. Se il mondo lavorativo è una giungla, devono avere ragionato questi “formatori”, tanto vale puntare sulla suggestione e su prove estreme (che spingono al di là dei limiti...). Se il problema nel luogo di lavoro è la competizione esasperata con i colleghi e con i clienti tanto vale simulare il brivido dell’incontro con i pescecani.
E ancora: con una simile ambigua cultura manageriale alle spalle si può capire anche le ragioni per cui importanti organizzazioni, anche grandi banche, possano proporre ai propri dirigenti e dipendenti corsi formativi finalizzati alla acquisizione di tecniche di manipolazione. Proviamo ad esplicitare una domanda di fondo, che a me sembra perfino ovvia dopo la grande crisi finanziaria che ha portato il mondo intero sull’orlo del baratro: per le banche (ma lo stesso ragionamento può essere esteso a qualunque azienda) sarebbe stato meglio avere funzionari manipolati e manipolatori o uomini davvero liberi e autonomi, capaci di ribellarsi all’ordine di appioppare ai clienti prodotti che in alcuni casi, come quelli della Cirio o della Parmalat, tutti sapevano valere meno della carta straccia?

E’ una domanda lecita non solo dal punto di vista morale, ma anche dal punto di vista aziendale: quel cinismo e quella spregiudicatezza manipolatoria hanno danneggiato clienti e aziende, hanno spinto a ragionare solo sull’interesse a breve e brevissimo termine, hanno evitato riflessioni e interrogativi su lungo periodo.
Penso che banche e aziende abbiano tutto l’interesse a rivedere la sofistica manageriale che ha imperversato in questi anni, a rivedere quell’evocazione astratta e ambigua della centralità della persona, quell’umanesimo di facciata che abbiamo scovato e messo in risalto. Nella società e nelle aziende, sottoposte a prove durissime, servono uomini e donne davvero liberi, capaci di esercitare il pensiero critico, (critico nel senso etimologico di crino – giudico), uomini e donne capaci di sfuggire alla manipolazione, sorretti da valori forti, responsabili ma proprio per questo capaci anche di scegliere secondo coscienza. Insomma, ecco il senso della ricerca che ho condensato nel pamphlet “La formazione (è) umanistica”, vi sono tante e buone ragioni per le quali è opportuno spingere la formazione manageriale a liberarsi dagli eccessi e dalle ambiguità e a recuperare quell’ispirazione umanistica che dovrebbe essere intrinseca a ogni autentico atto formativo.

Diciamolo con il linguaggio aziendale. Ci sono due visioni possibili dell’azienda: l’azienda degli shareholders (degli azionisti), finalizzata solo all’arricchimento a ogni costo degli azionisti; e l’azienda degli stakeholders, ovvero l’azienda che si propone di valorizzare tutti i portatori di interessi. L’azienda degli stakeholders abbisogna di una formazione manageriale che abbia al fondo un forte richiamo ai valori dell’umanesimo.
Insomma: una bussola umanistica può aiutarci a ragionare attentamente su alcune tendenze che hanno preso piede nella formazione degli adulti e in quella manageriale, a rivedere e liberarci da alcuni eccessi, a riportare al giusto posto alcune tendenze alla suggestione e alla spettacolarizzazione, a ricordarci che la formazione per avere un senso non deve mai dimenticare le sue finalità, ovvero aiutare a sviluppare la dignità, il rispetto per se stessi e per gli altri, lo spirito critico ovvero il gusto per la profondità, per andare oltre l’effimero e le facili scorciatoie.

A me sembra importante ricordare che riflessioni analoghe a quelle che noi qui stiamo svolgendo sono state proposte in contesti diversi recentemente anche da altri studiosi autorevoli. In un libro di recente pubblicazione, “Non solo per profitto”, Marta Nussbaum ha lanciato un grido di allarme del tutto convergente: essa, ragionando sulle tendenze dei sistemi formativi in America e in India, ha segnalato scelte irresponsabili che stanno svalutando la componente umanistica della formazione. Nel nome dell’utilità immediata della formazione si stanno privilegiando, ha segnalato la Nussbaum, solo gli aspetti tecno – scientifici della formazione scolastica e universitaria. Si tratta di un utilitarismo gretto che rischia di svuotare l’efficacia formativa della scuola e dell’università.
Penso che anche noi dovremmo prendere molto sul serio l’inquietudine della Nussbaum: alla fin fine una delle più radicali e peggiori sollecitazioni ad andare in questo senso vi è stata proprio qui in Italia, con quell’uscita sulle tre I (inglese, informatica, impresa) da parte dell’allora Presidente del Consiglio che è opportuno non dimenticare. Ad essa, purtroppo, hanno seguìto anche fatti su cui non abbiamo riflettuto a sufficienza: vi è, ad esempio, una drammatica deprivazione delle risorse delle facoltà universitarie umanistiche.
C’è un punto del ragionamento della Nussbaum (su cui molto hanno lavorato sia lei che Amartya Sen) che merita di essere attentamente ripreso. E’ la questione, dicono Sen e la Nussbaum, della capabilities, ovvero delle capacità umane di stare e orientarsi nel mondo e di relazionarsi con gli altri. La formazione, suggeriscono Sen e la Nussbaum, è finalizzata a formare e potenziare queste capacità umane. Il problema è allora riuscire a definire bene cosa intendiamo con capabilities, con capacità umane. In altre parole cosa vuole dire oggi la capacità, l’autonomia e la libertà delle persone.

Torna qui quell’ambiguità su cui ci siamo prima soffermati: difficile trovare qualcuno che non concordi oggi con l’autonomia e la libertà della persona. Ma nell’apparente unanimismo si possono facilmente intravedere accenti e finalità diverse, molto diverse tra di loro. In tempi di iperindividualismo e di utilitarismo radicale la libertà e l’autonomia della persona ha subito una torsione particolare: al posto della libertà, intesa come capacità di padroneggiare il proprio destino, è subentrato qualcosa d’altro, il gusto e il culto delle piccole libertà, la libertà di consumo e di movimento, accompagnate dal gusto dell’effimero, dell’intrattenimento, del potere fare tutto, tutto e subito, rapidamente e senza fatica. Un autorevole psicanalista, ragionando su questi fenomeni, ha fotografato l’immersione in una jouissance senza godimento, l’emersione di uomo senza gravità, per il quale la libertà scivola nella anomia e nella atopia.
E’ questa ambiguità che deve essere focalizzata e rispetto alla quale bisogna saper esercitare spirito e pensiero critico. Il nuovo umanesimo di cui stiamo ragionando dovrebbe servire proprio a questo: smontare questa ambiguità e aiutare a ritrovare le condizioni per la libertà personale e pubblica dell’uomo. Qui stanno le ragioni e il senso della ricerca di una bussola umanistica.

Milano, Casa della Cultura, 22 marzo 2012

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